di Emanuela Borgatta Dunnett

Intervista ad Enrico Di Carlo

“Il Brindisi del Poeta Astemio” è il primo libro ad esplorare, capillarmente, le abitudini enologiche di Gabriele d’Annunzio. Scritto a quattro mani da Enrico Di Carlo e Luca Bonacini (con la postfazione di Andrea Grignaffini ed edito da Verdone Editore), è il resoconto puntuale di svariati carteggi e dei contenuti delle Cantine del Vittoriale degli Italiani.
L’attento lavoro di ricerca, ha dato modo di approfondire la genesi dell’opera con l’autore: Di Carlo, allargando il campo d’azione anche ad un altro, recente lavoro dedicato ad Hans Barth.

Partirei dal gradevole titolo del libro… Com’è possibile brindare per un poeta astemio?
Mi verrebbe da dire che non è possibile, a meno che il poeta non brindi con acqua. Ma se brinda con acqua, contravviene a ogni regola di bon ton e, probabilmente, anche a una credenza popolare secondo la quale brindare con acqua porterebbe sfortuna. Ciò non vale, evidentemente, per d’Annunzio che poteva permettersi tutto e il contrario di tutto. Il titolo del libro è un ossimoro, ma è il Poeta stesso a essere contraddittorio: abbiamo un d’Annunzio pubblico e uno privato. Il primo è quello che beve solo acqua, come fa notare a Carducci nel 1901, a Bologna, per poi sentirsi rispondere “e io non bevo che vino”, mentre l’anziano collega era alle prese con un calice di Lambrusco. Il secondo è quello che eccede davanti a una bottiglia “lunga e snella” di Soave veronese; e che si fa regalare sessanta bottiglie, sempre di Soave, da Antonio Gioco, titolare del ristorante Dodici Apostoli, di Verona, in cambio di una sua foto con dedica.

Il vostro è, innanzitutto, un accurato studio archivistico e storico. Come si è mosso, insieme a Luca Bonacini, nelle ricerche e quali sorprese avete incontrato durante la stesura? Quali, fra i carteggi riprodotti, vi hanno – maggiormente – coinvolti?
Ci siamo mossi prevalentemente tra archivi pubblici e privati. Il documento più importante che abbiamo incontrato è stato l’elenco dei vini e dei liquori, presenti nella cantina del Vittoriale, redatto dalla pianista Luisa Baccara, ultima musa, prima della morte dello scrittore. L’originalità non risiede nell’aver pubblicato la lista, nota agli studiosi da anni, ma nell’aver lavorato – Bonacini – su quelle 295 bottiglie, chiarendo il nome di alcune etichette (in quanto trascritte con grafia incerta) e disegnando una mappa dei vini italiani e francesi, questi ultimi cinque volte più numerosi di quelli nostrani, di costo ancora elevatissimo. Per quanto riguarda la produzione nazionale, si tenga conto che i vini dei quali d’Annunzio si è in qualche modo occupato, sono distribuiti, da Nord a Sud, in dodici regioni: ovvero il meglio della produzione enologica del tempo. Mi chiedeva dei carteggi. Il più coinvolgente per me è stato quello con l’abruzzese Amedeo Pomilio, creatore dei liquori Aurum, Cerasella e Mentuccia di San Silvestro.

Il documento più importante che abbiamo incontrato è stato l’elenco dei vini e dei liquori, presenti nella cantina del Vittoriale, redatto dalla pianista Luisa Baccara, ultima musa, prima della morte dello scrittore.

Cosa ci raccontano dei gusti del Vate i suoi calici preferiti e la sua ricca cantina al Vittoriale? Il rapporto con l’alcol fu, davvero, contradditorio?
Proprio perché il suo rapporto con l’alcol è stato contradditorio, più che di gusti, comunque raffinati, parlerei di conoscenza storica e letteraria. Basterebbe scorrere l’indice del nostro libro, che abbiamo intitolato “indice dei vini segreti e delle amene bevande” per capire quanto la sua competenza spaziasse dagli amari italiani e stranieri ai liquori abruzzesi, dal Sangue morlacco al mosto cotto, dagli sciroppi allo champagne. Tutto ciò è documentato da menù e lettere inediti (con Antonio Gioco, Marcello Fantoni, Lionello Stock, tra gli altri), e dai riferimenti enologici che siamo riusciti a censire, presenti nelle varie opere dannunziane. Tra le curiosità, nel solito indice troviamo citati anche il caffè, il cappuccino e il tè.

Come si lega il Cenacolo Michettiano al liquore Corfinio, al quale dedicate – giustamente – un capitolo?
Il Corfinio nasce nel 1858, grazie all’intuizione del chietino Giulio Barattucci che raccolse quarantadue erbe, lungo i sentieri della Maiella, riuscendo a conferire al prodotto il tipico colore giallo dovuto agli stimmi dello zafferano. Il nome, secondo la leggenda, glielo avrebbe dato il pittore Francesco Paolo Michetti, ispirandosi alla prima capitale d’Italia, Corfinium appunto, in provincia dell’Aquila. Il Corfinio, che d’Annunzio aveva definito “l’odoroso liquore teatino”, veniva offerto agli ospiti del Convento Michetti, a Francavilla al Mare. L’artista, inoltre, aveva disegnato la bottiglia a forma di anfora, le prime etichette, e affrescato i due locali che Barattucci aveva inaugurato rispettivamente a Chieti e a Napoli, in via Toledo, nei pressi della redazione del ‘Mattino’. Qui, clienti abituali erano Edoardo Scarfoglio, Matilde Serao, Salvatore Di Giacomo, Ferdinando Russo, Cesare Pascarella e, naturalmente, d’Annunzio quando era in visita nella città campana.

Il Corfinio nasce nel 1858, grazie all’intuizione del chietino Giulio Barattucci che raccolse quarantadue erbe, lungo i sentieri della Maiella, riuscendo a conferire al prodotto il tipico colore giallo dovuto agli stimmi dello zafferano

Il recente lavoro dannununziano non è il solo saggio enogastronomico al quale si è dedicato. Penso, in particolar modo alla “Guida spirituale delle osterie italiane da Verona a Capri”, riedita nel 1921 (ma già pubblicata nel 1908 in Germania e nel 1910 in Italia) da Hans Barth. Un’opera di grande successo di cui lei ha curato una splendida, recente edizione. Quali caratteristiche di quest’opera pensa possano ancora attrarre il lettore/turista moderno?
Il libro di Hans Barth è la prima guida enogastronomica italiana. Barth, giornalista tedesco di ampio spessore culturale, attraversa il Bel Paese percorrendo il tradizionale itinerario del Grand Tour. Guarda l’Italia dal buco della serratura delle osterie, prendendo per mano il lettore che, ieri come oggi, continua a trovarsi seduto accanto a regnanti, pontefici, artisti, mecenati, personaggi letterari e leggendari e gente del popolo, vivendo la storia di una nazione che l’autore descrisse e amò più di molti italiani, tanto da voler essere sepolto a Roma. Il libro esercita un grande fascino sul lettore (o turista) attratto dalla passione per i vini (di cui Barth fu ottimo degustatore), per i cibi, e dalla possibilità di passeggiare lungo itinerari carichi di storia. L’altro aspetto importante è la prefazione di Gabriele d’Annunzio, il quale accusa il giornalista di essere un beone, definendosi lui stesso “acquatile”, in luogo di astemio. Il Pescarese mostra nuovamente una perfetta conoscenza dei vini italiani, tanto da rimproverare il “sitibondo Barth” di non sapere del “Nepente d’Oliena neppure per fama”, e invitandolo a fare una sosta sul litorale delle Cinque Terre, per “inzupparvi di quella Vernaccia di Corniglia celebrata già dal Boccaccio”.

Emanuela Borgatta Dunnett @manuwritesandreviews

Per la foto di copertina Photo Credit: Il Gambero rosso

Per le foto nell’articolo Photo Credit: Pixabay