di Elena Vitali 

Quando la casa editrice Diarkos mi ha dato la possibilità di scegliere quale libro tra quelli da loro pubblicati recensire non ho avuto dubbi: “Audrey Hepburn – La farfalla di ferro” di Alessandro Ruta.

Fu Peter Bogdanovic, durante le prove del film “Funny Face” a riservare alla Hepburn il soprannome di “iron butterfly” in cui si racchiude tutta l’essenza della grande attrice: elegante e delicata come una farfalla ma forte come il ferro. Imprevedibile, disarmante, libera e indipendente, forgiata da un’infanzia difficile, visse il periodo nazista durante la Seconda Guerra mondiale, anni in cui fu costretta anche a cambiare nome, considerato pericoloso a causa del suono anglofono. Tra il divorzio dei genitori, l’abbandono del padre, la carestia e i problemi di malnutrizione che le causò seri problemi di salute, Audrey non rinunciò a portare avanti i suoi sogni, studiando danza e frequentando il Conservatorio.

https://blog.seamwork.com/inspiration/film-style-inspiration-funny-face/

Ho imparato a essere qualcosa di questo mondo che ci circonda, senza stare lì in disparte a guardare. Stai pur certo che ormai non la fuggirò più la vita… e neanche l’amore.

La narrazione si dipana tra una cronologia fitta di date e di eventi, che nella sua continuità indubbiamente toglie un po’ di poesia a quella che è stata la vita di una grande donna che sembrava destinata alla danza ma a cui il cinema, piombato nella sua vita all’improvviso, ha trasformato l’esistenza.

Alessandro Ruta ci racconta di un’icona che andava controcorrente, che vestiva di bianco e nero o di rosa chiaro quando i colori erano sugli abiti delle altre attrici, che aveva un fisico asciutto e longilineo quando Marylin Monroe e Sofia Loren la facevano da padroni, che indossava ballerine ai piedi quando il tacco divenne un must.

Debuttante in un’epoca di carni abbondanti da pin-up alla Marylin Monroe, è riuscita a sfondare rappresentando l’ideale di una donna capace di fare da sé e di essere indipendente, sempre con quell’aria da Cenerentola alla ricerca di un principe azzurro”.

Photo Credit: https://www.theglampad.com

E di principi azzurri ne incontrò ben tre: Mel Ferrer, Andrea Dotti e Robert Wolders. Ma l’amore più grande della sua vita, oltre ai figli Sean e Luca, lo conosce nel 1987: l’Unicef del quale diviene testimonial delle sue iniziative. Il cinema è ormai al secondo piano della sua vita, le priorità sono quelle di intervenire, il prima possibile, in aiuto alle popolazioni dei Paese più poveri: “salvare un bambino è una benedizione, salvarne milioni è un’opportunità data da Dio”, ripete. Organizza a sue spese, per raccogliere fondi, conferenze in Inghilterra, Svizzera, Canada, Germania, Turchia e Stati Uniti. Si reca, sempre accompagnata da Robert Wolders, per consegnare cibo e medicinali a nome dell’Unicef, in Etiopia, nel sud del Sudan, in El Salvador, in Bangladesh, in Vietnam, in Honduras, in Guatemala, in Ecuador, in Thailandia, in Kenya e in Somalia dove si “mette in prima persona a dare del cibo alle madri che non riescono ad allattare i loro figli perché malnutrite”. Dona all’organizzazione umanitaria i compensi che riceve per le sue partecipazioni a film e spettacoli e visita, sempre a sue spese, ospedali, orfanotrofi, centri di distribuzione del cibo nei territori più bisognosi di aiuto. Non si risparmia e trascura le sue precarie condizioni di salute perché, afferma, “Questo non è il tempo di riposare”.

Diarkos Editore 2021

@elenavitali72

Photo Credits per la copertina: Unplash